Un viaggio onirico nell’universo femminile quasi programmatico, per un uomo e regista che aveva amato ingordamente le donne dentro e fuori il set, una riflessione sul decadimento del maschio all’interno dei venti femministi osservati con un misto di garbo satirico che via via però si stempera in un’ammissione gaudente e sottile d’amore per l’altra metà del cielo tra le consuete rievocazioni infantili autobiografico-poetiche. Il miscuglio tra realtà e sogno non raggiunge la simbiosi perfetta di 8 ½ e lo scenario appare spesso un po’ appannato, viziato da un autoreferenzialità che se è propria di Fellini, in alcune sequenze rischia il formalismo un po’ vacuo. Come se l’intero scenario circense finale e il tripudio di lampadine che accompagnano la discesa di Snaporaz dentro lo scivolo-ventre-utero femminile fosse lo spettro avvizzito di un soffitta di ricordi. Ne consegue la sensazione che la storia proceda in un pantano privo di punte di suspense: Fellini da vita alla sua personale lanterna magica imbastendo con altre parole una (sua) filosofia già ascoltata (e in meglio) in altri film, ma tuttavia l’amore per la Donna e il cinema, per le forme femminili e le forme del cinema che possono raccontarla è così accesa e barocca che è impossibile sottrarsi allo spettacolo, alla visionarietà dell’occhio riminese. Junghianamente le donne felliniane sono il cono d’ombra che permette l’indagine sul maschio (e dunque su se stessi), sull’involuzione umbratile della figura maschile in un mondo mutato dove anche l’afflato vitalistico-sessuale dell’ultimo seduttore possibile (Katzone, nome omen) diventa un atto sterile e mortuario di rievocazione di un passato ormai lontano, un Don Giovanni moderno chiuso nel suo castello diroccato pieno di candele tese a celebrare mestamente la fine di quella vitalità che sembra invece traboccare dalle forme piene, dalle risate, dalla voglia di innovazione delle donne che sfilano in scena, bacchettate ma infine amate dal loro regista.
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Ricordo questo film con fastidio. L’unico film di Fellini che non mi sia piaciuto, manieristico nel senso brutto del termine e banalotto. Forse dovrei rivederlo (è stato tanto tempo fa). Forse anche no.
Ma dai complimenti, hai scritto una bellissima recensione, peraltro che condivido dal punto di vista dei contenuti. Non mi piacque, avrebbe potuto essere un altro “8 e mezzo”, ma potrebbe essere, come suggerisce qualcuno, che senza Flaiano alla sceneggiatura la ribollente fantasia felliniana perdeva colpi.
@uno infatti lo è, manieristico e a tratti un po’ autocompiaciuto… ma che posso dire, ci son delle cosucce che mi hanno solleticato particolarmente. Non uno dei migliori Fellini, ma lo preferisco ad alcuni altri (che però non vedo da tempo, tipo E la nave va).
@tenda, grazie per i complimenti. Non credo che senza Flaiano fellini fosse monco, tant’è che anche il Satyricon e il Casanova – due film che amo moltissimo e che trovo eccellenti – li ha scritti senza di lui.
Bel commento. Personalmente sento che il senso di vuoto cui fai riferimento sia una cifra tutta voluta dall’autore. In fondo tanta spinta, selvaggia, acida autoreferenzialità e “onirismo” qui come non mai in Fellini si ritorcono autolesionisticamente contro l’autore, incapace ormai ad afferrare la donna, la realtà caotica che lo circonda, trasfigurandola in senso estetizzante, imprimendole un ordine compositivo e caricandola di suggestione
è ovvio che sia voluto, o quanto meno tipico di questa fase di Fellini (cui affiancherei anche Il Casanova e il Satirycon).
Satyricon non me lo ricordo bene. Quanto al Casanova (che ritengo uno dei tre film più belli di Fellini, insieme a Toby Dammit e a Roma), non penso che lasci emergere tanto senso di vuoto e di sterilità, almeno a livello di messa in scena del contesto all’interno di cui opera il personaggio. L’impressione che ho ricevuto è viceversa quella di un tutto “pieno”, “denso”, “terreo”, laddove è la tensione erotica maschile dell’autore a guidare la composizione quanto mai produttiva, fantasmagorica e sfavillante, dell’universo poetico presentatoci. Una sorta di sublimazione estatica ed estetica delle proprie istanze pulsionali più profonde. Oltre all’ironia crudele con cui viene tratteggiato nel Casanova il protagonista, La città delle donne, opera cronologicamente successiva, mi sembra la più naturale, autolesionista e autoderisoria risposta alla messa in campo, sempre in Casanova ed altrove, di un immaginario erotico tanto maschilista: la donna sarà lì persistentemente fonte di frustrazione e di persecuzione e la messa in scena eccessiva, caricaturale quanto vacua, caotica e manierista rifletterà questo stato di impotenza e sterilità creativa dell’autore (maschile) dell’opera d’arte
Sono d’accordo con il tuo discorso finale: la città è indubbiamente una sorta di Casanova estremizzato o quanto meno una sua versione al limite del kitsch. Ma è anche vero che il film settecentesco suggeriva comunque al di là del “maschilismo” una sorta di vacuità dell’uomo che (crede) di amare le donne, ma forse ama solo se stesso (o che peggio cerca freudianamente nelle donne la madre perduta).