Noodles Journal

Solo il mio modo di vedere le cose

Flags of our fathers (id., Clint Eastwood, 2006)

Ah, no, proprio no, non ci siamo. Okay, apprezzo che Eastwood passati i settanta continui a innovarsi e cercare nuove forme di linguaggio, apprezzo che si sforzi di abbandonare parzialmente il suo stile misurato e lasciare che la camera a mano racconti l’orrore della guerra in una splendida fotografia prosciugata di quasi ogni colore a parte quel livido blu, sineddoche cromatica dell’annullamento della battaglia. Ma. Pur nel manto fotografico di indubbio effetto e nelle riprese ondeggianti e frammentate, ossia in quelle che potrebbero essere le scene migliori, questo film non esce mai da un derivazionismo spielberghiano che proprio non appartiene a Eastwood, un processo di mancata osmosi, che nel racconto tenta la stessa strada frammentata ma si perde tra continui e troppo brevi flashback, spesso troppo brevi perché riescano ad acquistare una vera economia nella somma degli eventi.
E in specie il racconto del ritorno dei reduci, del loro incontro/scontro con i vertici militari, questa dicotomia tra i veri sentimenti (di umiltà, d’orrore per il passato prossimo appena scorso) dei soldati e le logiche machiavelliche della pubblicizzaione statale per sovvenzionare la guerra… diciamolo su, è un tantino trita. Soprattutto perché raccontando la verità dei combattenti, refrattari alle parate, come spuntone per attaccare la vuota e falsa retorica dello Stato in cerca di fondi, il film finisce poi per creare un’altra retorica, quella del soldato legato al soldato, della rievocazione quasi nostalgica della campagna bellica, mortale, pericolosa, ma simbolo di un’ideale spirito di fratellanza cameratesca.
E poi quel finale. No, non si può, lungo, verboso (come l’incipit), di una verbosità che è sempre stata sanamente bandita dal cinema del vecchio Clint e che qui pare rifarsi di anni e anni di cesello. Anche perché le chiacchiere corrono rischiosamente sul filo della retorica di rimbalzo di cui si scriveva sopra. E seppure il flashback finale è molto suggestivo e non manchino idee interesanti al film (una su tutte quelle di non mostrare quasi per nulla i giapponesi nemici, così che la guerra diventa quasi una condizione dello spirito in lotta, un solitario campo di desolazione umana), che posso dire, a me ha comunicato poco e ha annoiato pure un tantino. Dopo Mystic river – uno dei film più belli degli ultimi dieci anni, roba che il sottoscritto uscì dal cinema camminando sull’aria – leggendo che Clint s’apprestava a girare un film sulla boxe dissi eccolo là dopo un capolavoro torna a girare film ineccepibili ma senza la vera anima dolente dei suoi migliori. E invece mi dovetti ricredere. E molto. Questo titolo nuovo mi ispirava poco, nella sua locuzione un po’ retorica, ma speravo – debolmente devo dire – che incappassi di nuovo nell’effetto Million dollar baby. E invece no. Rimandiamo va, rimandiamo tutto nell’attesa delle lettere da Iwo Jima…

11 risposte a “Flags of our fathers (id., Clint Eastwood, 2006)

  1. UnoDiPassaggio 22 novembre 2006 alle 2:20

    Io invece ero quasi convinto, sulla scorta di quanto avevo già sentito in giro, di dover assistere all’ennesimo film magari bello ma senza palle della stagione. Mi sono ritrovato inchiodato dal pessimismo eastwoodiano e commosso dal criticatissimo finale. Sarà che sono particolarmente sensibile alle riflessioni sui padri. Perchè quei “fathers” del titolo non sono affatto i “padri della patria” ma i padri mai conosciuti, al di là del loro statuto di cittadino. E le sequenze belliche suonano come un flashback spielberghiano in una dimensione eastwoodiana. Un incontro di sguardi e di pensieri controverso e stimolante (almeno per me).

  2. PogoOpossum 22 novembre 2006 alle 12:59

    Non concordo, soprattutto il discorso della retorica dell’antiretorica e della derivazione spielberghiana.

  3. NoodlesD 22 novembre 2006 alle 14:04

    @Uno, non c’è dubbio che soprattutto di padri genetici si parli, e non solo di quelli storico-morali, ma anche da quel punto di vista il film non mi convince. Mi ha dato una sensazione di freddezza su temi che a volte prendono la via più semplice. Ma a quanto pare su questo film sono in minoranza, anche se qualche divisione l’ha pure creata, come mostra anche il commento di Pogo :p

  4. Avag 22 novembre 2006 alle 18:15

    ok non e’ million dollar baby ma brutto brutto no, dai..
    condivido quanto dice Uno: preferisco di gran lunga la rilettura di Clint ai strombazzati 20 minuti di “salvate il soldato ryan2 che trovai un po’ fantozziani con la morte del medico, mi sa che fece lo stesso effetto a clin infatti si premura di spiegare perche’ gli inferimieri erano presi di mira..

  5. Avag 22 novembre 2006 alle 18:36

    mazza come mi e’ pegiorata la dislessia digitale! sara’ stao il pensiero di dover aggiungere quel voto bassissimo ai cineblogger: cativo! ;-P

  6. gbanks 22 novembre 2006 alle 20:39

    a me è piaciuto molto.
    un po’ al di sotto degli ultimi di eastwood, ma comunque molto positivo.
    mi è piaciuto assai il lavoro si scavo sulle immagini, e credo che i titoli di coda siano la cosa più bella del film.
    concordo sull’eccessiva influenza di spielberg, soprattutto nelle sequenze dello sbarco.

    (ah, ho dimenticato di premettere che io amo spielberg!)

  7. NoodlesD 22 novembre 2006 alle 20:48

    @avag, okay magari brutto no, ma io sono un clintiano d’affezione e mi scoccia dovermelo vedere in queste versioni “ridotte” e rimasticate. A me il soldato Ryan piacque molto – e lo vidi al cine – anche se quel finale era un po’ appiccicaticcio, ma questo di Clint non so. Magari a una revisione…

    @gbanks, sia chiaro, anche a me Spielberg piace ^^

  8. PogoOpossum 23 novembre 2006 alle 2:12

    Il finale di “Salvate il soldato Ryan” è perfetto. E’ il grido ad una generazione di apatici che hanno dimenticato chi si è sacrificato per ottenere questa (imperfetta ma meglio di niente) democrazia.
    La morte del dottore (un bravissimo Ribisi) è tutt’altro che fantozziana (dirlo equivale a bestemmiare); è un momento di rara umanità – lui ha capito che non rivedrà la mamma e si pente di quanto sbagliato è stato il suo comportamento – perché metafora di ciò che vorremmo aver fatto e non potremmo fare, oltre che mostrare (se qualche distratto non l’avesse capito prima durante lo sbarco) la scempiaggine della guerra.
    Il problema è che la semiologia moderna non ha capito nulla della retorica, per cui è passato il messaggio che se un film è retorico non è un buon film…

  9. Avag 23 novembre 2006 alle 12:06

    pogoopossum, non mi riferivo a ribisi, ma durante lo sbarco c’e’ questo infermiere che corre da tutte le parti per soccorrere i feriti a un certo punto si gira e lo impallinano in mezzo agli occhi, a me e’ venuto da ridere qpeche’ quella era davvero retorica del il buon soldato che si sacrifica e li’ e’ finito il mio interesse per il film, ammetto che rivisto in tv “salvate il sodlato ryan” ha (ri)guadagnato dei punti e mi riprometto di vederlo con calma prima o poi e rivedere tutto il mio giudizio 🙂

  10. PogoOpossum 23 novembre 2006 alle 12:17

    Se non sbaglio (lo so a memoria, però un frame potrebbe pure essermi sfuggito) l’impallinato in mezzo agli occhi sulla spiaggia è un soldato semplice che si toglie l’elmetto.
    Ripeto, potrei sbagliarmi… ma a memoria non ricordo del buon soldato.

  11. NoodlesD 24 novembre 2006 alle 15:21

    be’ in effetti la morte del personaggio di Ribisi ha una forza drammatica non indifferente. Io credo che Salvate il soldato Ryan sia un grandissimo film, ma un po’ ridimensionato da alcune scene e situazioni un po’ convenzionali e retorichette.

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